venerdì, ottobre 18

Giochi d'infanzia (si stava meglio quando si stava peggio)

Caro Lettore,

Quando ero piccola, alla classica domanda “cosa vuoi fare da grande?” rispondevo sempre con molta decisione: “La cassiera del supermercato!”.
Il motivo principale di questa mia risposta categorica era il fascino che esercitava su di me il registratore di cassa utilizzato dalle cassiere del supermercato dove mi recavo con i miei. Fin dal primo modello che ebbi l’occasione di osservare, che era meccanico e possedeva una tastiera fornita di quattro file di pulsanti di colore diverso, in cui ogni colore corrispondeva rispettivamente alle migliaia, centinaia, decine e unità e per comporre un prezzo dovevano essere pigiati uno dietro l’altro.
Modello di registratore di cassa molto simile a quello che intendo io

In seguito la tecnologia fece dei grossi passi in avanti, e le cassiere furono dotate di macchinari computerizzati con i quali era possibile fare il conto più velocemente al dolce suono di un beep per ogni tasto pigiato. Le cassiere erano davvero veloci a premere i tasti, spesso senza guardarli, e a me sembravano dei pianisti, che emettevano questa bella melodia, al cui termine magicamente si apriva uno sportello che conteneva i soldi divisi in scomparti in base al valore delle banconote e delle monete.
Seconda generazione

Ma nonostante ne sia sempre rimasta affascinata, in realtà non sono mai stata molto brava a districarmi nel mondo dei computer e della tecnologia, e la cosa diventa assai più grave considerando la presenza in casa prima di un padre e poi di un marito che hanno fatto un mestiere della loro passione per l’informatica, e si lamentano di questa mia inettitudine. 
Ma d'altronde fin da piccola non sono mai riuscita ad interagire non solo con i più famosi videogiochi, ma addirittura con i semplici giochini che prevedevano l’utilizzo di due soli tasti per muovere i personaggi. Mi ricordo in particolare un gioco ispirato all’atletica leggera che aveva il mio amico Guido sul suo computer, in cui il l'atleta, specialmente nella gara dei cento metri, era facilissimo da muovere perché utilizzando indice e medio di una mano lo si doveva far correre più velocemente possibile. Quel gioco mi annoiò quasi subito perché perdevo sempre, ma mi ha lasciato un ricordo legato al linguaggio, perché era in inglese, ed io imparai le tre parole che comparivano sullo schermo prima della partenza della gara, e cioè “get set, ready, go”.
Era l’epoca in cui si diffusero i computer nelle case di tutto il mondo, i cosiddetti Home Computer, tra cui i più famosi erano il Commodore64 ed lo Spectrum Sinclair .
Ripensandoci adesso mi rendo conto che in casa di Guido erano davvero all’avanguardia perché il computer che usavamo era il Macintosh della Apple, che aveva uno schermo piccolino con il disegno della mela colorata. Mio padre ne era affascinato perché, diceva, lo avevano fatto venire direttamente dagli Stati Uniti. A me non sembrava niente di che, in confronto a quello che avevamo noi in casa, lo Spectrum, con la sua coloratissima tastiera con i tasti di gomma. 
La coloratissima tastiera dello Spectrum
Io me ne stavo ore a guardare mio padre che giocava, ma quando ci provavo io, ero davvero incapace. In compenso però avevo imparato a programmare i giochi, grazie all’aiuto di un manuale di programmazioni di giochi proprio per lo Spectrum. Mi ricordo di un gioco in particolare, o meglio mi ricordo le foto dimostrative sul libro, che si svolgeva all'interno di un castello che doveva essere perlustrato completamente con l’obiettivo di raggiungere una certa stanza e sconfiggere un mago cattivo. Nonostante avessimo seguito le istruzioni alla lettera, mio padre ed io però non riuscimmo mai a lanciare il gioco.
Recentemente l’osservazione di bambini durante le loro attività ludiche, mi ha fatto capire quanto positivamente la tecnologia di oggi influenzi il loro gioco e intrattenimento. Infatti i bambini di oggi giocano utilizzando le applicazioni degli Smartphone e dei Tablet, che, rispetto ai semplici videogiochi, potenziano oltremodo lo sviluppo della loro fantasia e soddisfano pienamente la loro voglia di creare, per cui possono costruire delle astronavi semplicemente toccando lo schermo con la punta delle dita. Oltre a ciò hanno la possibilità di vedere i loro film o cartoni preferiti, ovunque e quando vogliono, grazie soprattutto all’utilizzo di Youtube.
Certo c’è anche il rovescio della medaglia, per cui capita di vedere bambini seduti buoni a tavola perché ipnotizzati davanti ad un tablet o a un computer portatile. Non voglio criticare l’atteggiamento educativo di certi genitori, ma devo ammettere che rispetto a quando eravamo piccoli noi, adesso è molto più semplice annientare la vivacità esagerata di certi bambini.
È vero anche che noi eravamo molto meno reattivi e maturi rispetto ai bimbi di oggi. Io, per esempio, fino all'età di tre anni, ho giocato con quei confetti tondi di cioccolato ricoperti di zucchero colorato (per vedere come sono meglio noti clicca qui) senza sapere che fossero commestibili. Chiaramente mia madre e mia nonna si guardavano bene dal dirmelo, sia per il mio bene sia per evitare un conto salato dal dentista, ma fino al giorno in cui il calore delle mie mani sciolse la copertura di zucchero e mi si aprì un mondo, io sono riuscita comunque a divertirmi con quei "bottoni colorati", mettendoli in fila per colore e giocando a filetto con mio nonno.
Però mi chiedo, se noi ci siamo goduti l'infanzia e l'adolescenza senza dover essere per forza adulti, orgogliosi di giocare con Barbie e Ken fino all'età di 14 anni, anche i bambini di oggi potranno fare altrettanto?
Da una parte provo una certa invidia nei confronti di bambini di tre/quattro anni che spostano le loro piccole dita cicciottelle sullo schermo con una sicurezza quasi da professionisti e che intuiscono le regole del gioco con la capacità di un premio Nobel in fisica, dall'altra però rimpiango i tempi in cui noi, nati negli anni settanta e ottanta, prima dell'avvento dei videogiochi, ci dovevamo arrangiare per soddisfare gli slanci delle nostre sfrenate inventiva e immaginazione.
Un giorno mia nonna comprò il frigorifero nuovo che arrivò in casa dentro uno scatolone di cartone, che fu temporaneamente appoggiato nell’ingresso in attesa di essere buttato. Ma arrivammo prima io e mia cugina che, affascinate da questo scatolone più alto di noi, lo portammo nella nostra stanza giochi in casa della nonna, lo distendemmo in un angolo della stanza e cominciammo a pensare a cosa sarebbe potuto diventare, visto che la nostra unica possibilità di entrare dentro era dai lati più corti. La decisione non tardò a venire, si trattava di una navicella spaziale che doveva andare sulla luna, resa credibile dal fatto che fossimo obbligate a stare dentro il cartone o distese o a sedere, cosa che poteva benissimo succedere in una navicella spaziale. E così il cartone del frigorifero acquisì un nuovo splendore, impreziosito anche dalle nostre decorazioni interne, fatte con i pennarelli, per cui disegnammo una vera e propria plancia di comando stile astronave Enterprise, ed esterne, con piccoli sportelli fatti tagliando il cartone con un taglierino.
In quel periodo io e mia cugina passavamo tutto il nostro tempo dentro la nostra navicella, immaginando viaggi e scontri con creature aliene, finché qualche familiare, per un motivo a noi oscuro, fece davvero volare la navicella, anche se dalla finestra di casa.
Il massimo della creatività in quegli anni di gioco fu espresso da parte mia nel periodo in cui giocavo con la mia vicina di casa Beatrice, che aveva qualche anno e diversi chili più di me, e che io invidiavo per due cose: i suoi bellissimi capelli lunghi spesso raccolti in una coda di cavallo e la sua collezione di Barbie con annessi e connessi, vestiti, scarpe, villa, piscina, camper, macchina etc etc.
Per questo motivo nei pomeriggi d’estate attraversavo la strada e m’impossessavo di quel tesoro fantastico, facendo finta che fosse mio. Ma un giorno Beatrice, probabilmente perché aveva intuito che non andavo a casa sua proprio per il piacere della sua compagnia, decise di cambiare gioco. Da quel momento avremmo lasciato Barbie e tutte le sue proprietà in camera, e ci saremmo spostate in giardino, dove avremmo aperto un negozio di generi alimentari, o pizzicagnolo, come si dice dalle nostre parti. Io accettai, mio malgrado, la proposta, consapevole che altrimenti sarei stata esclusa dal mio sogno proibito.
E così nacque il nostro negozio, che fisicamente si trovava nel locale della lavanderia nel giardino di Beatrice, e che accanto agli articoli classici della gastronomia forniva anche un servizio di bar. Per fare tutto ciò ci inspirammo ai prodotti che ci offriva l'ambiente circostante, cioè il giardino e la lavanderia, per cui ad esempio petali di rosa di colore rosa diventarono fette di prosciutto cotto, mentre quelli di colore rosso, prosciutto crudo. Un giorno poi ci venne un’idea geniale, e facemmo il cappuccino mescolando acqua, terra e detersivo in polvere. Quest’ultimo era il tocco magico perché dava l’idea della schiuma fatta con il getto di vapore delle macchine del bar. E tra i nostri clienti i cappuccini andavano a ruba, tant’è che un giorno il detersivo finì e la mamma di Beatrice fece uno più uno col fatto che le rose sopravvivevano meno del solito e scoprì cosa c’eravamo inventate, ponendo fine alla nostra esperienza di ristoratrici. E' chiaro che non ci saremmo mai sognate di berci il detersivo in polvere, ma le mamme preferirono non fidarsi…
Contemporaneamente all’apertura degli alimentari, iniziò la mia attività di merciaia con una socia diversa. Si trattava di Monica, una ragazzina alta, magra e ossuta, anche lei più grande di me di un paio d’anni, che abitava sullo stesso pianerottolo di mia nonna.
A me piaceva tantissimo entrare nella merceria che riforniva mia nonna, perché ero affascinata dalle scatole che riempivano i ripiani del negozio, e sul cui lato esterno visibile dallo scaffale era attaccato ciò che le scatole stesse contenevano, suddiviso per colore. E ogni volta m’incantavo a vedere la serie di bottoni grandi e piccoli tutti dello stesso colore, aspettando la magia per cui una volta aperta la scatola, il contenuto, diviso in piccoli sacchetti di plastica, corrispondeva a quanto indicato all’esterno. 
Affascinata da tutto ciò, mi venne in mente che anche in casa di mia nonna c’era del materiale interessante tra cui bottoni, fili, cerniere e nastri, che apparteneva sia a mia nonna, che si dilettava a cucire, sia alla collezione della qualunque fatta dalla mia bisnonna Nelide, di cui ti ho già parlato qui, e della quale riuscimmo ad impossessarci probabilmente perché la bisnonna era morta.
Ad ogni modo Monica ed io ci sistemammo sul pianerottolo, dove mettemmo un tavolino come bancone di vendita, dietro il quale sistemammo delle scatole con la nostra merce divisa accuratamente per genere e soprattutto per colore. Scopo del gioco era di mostrare alla cliente, immaginaria o interpretata da una di noi due, l’abbinamento più giusto tra filo, bottone e cerniera, cosa che immancabilmente avveniva nel negozio dove mi recavo con mia nonna, e che mi procurava una grande soddisfazione. Il nostro negozio rimase aperto per diverso tempo senza che la nostra passione per i bottoni venisse meno, così come tutti i giochi che Monica ed io ci eravamo inventate insieme. Purtroppo quando i miei nonni cambiarono casa, tutte le nostre attività terminarono e con esse anche la nostra frequentazione, tant'è che Monica credo di non averla più rivista dai tempi dell'infanzia.

Come ultimo ricordo dei miei giochi d’infanzia ti voglio proporre quello socialmente più utile, l’ospedale dei peluche, a cui giocavo con mio cugino più piccolo di 4 anni. Senz'altro questo gioco s’ispirava al cartone animato del momento, Candy Candy dove la protagonista, grande amante degli animali, frequentava una scuola per infermieri in America. 
Dato che avevo ricevuto in regalo il kit del piccolo medico, con tanto di termometro, stetoscopio e siringa finti, mi ero inventata un ospedale dove i pazienti erano i nostri peluche. Io, che ero più grande ero il medico, mentre mio cugino faceva l’infermiere. Per aumentare il numero dei nostri pazienti avevamo racimolato qualsiasi tipo di peluche, anche quelli attaccati ai portachiavi. Ciascun paziente aveva il suo letto e la sua cartella clinica dove venivano segnati la temperatura giornaliera (come faceva Candy nel cartone animato) e qualsiasi tipo di sintomo. Ovunque ci trovassimo, anche a casa di parenti, tiravamo fuori tutti i nostri pazienti da una scatola, li sistemavamo nei loro letti, cioè per terra, ognuno con il suo piccolo lenzuolo sopra e immaginavamo di essere in una stanza d’ospedale, dove ogni paziente, era visitato e curato fino alla sua definitiva guarigione. 
Credo che questo sia stato l'unico momento di gioco condiviso con mio cugino. Infatti i nostri interessi erano completamente diversi e sia prima che dopo la vicenda dell'ospedale ci siamo sempre ignorati dal punto di vista dei giochi.

Caro Lettore,

alla fine da grande non ho fatto la cassiera del supermercato, però il mio desiderio si è avverato ugualmente. Infatti, dato che oggi la tecnologia ha raggiunto livelli tali che il compito della cassiera ha perso tutto il suo fascino e si è ridotto alla semplice registrazione dei prodotti con un lettore ottico e alla riscossione del pagamento, che per la maggior parte viene fatto con le carte, chiunque si avvicini alle casse automatiche presenti in qualsiasi supermercato, è lui stesso una cassiera. E indovina chi è uno dei clienti più affezionati a queste macchinette?

A presto

Nel+cistail-


Nessun commento:

Posta un commento