lunedì, aprile 15

Carne Tremula (De Gustibus...)



Caro Lettore,


non c’è dubbio, mi piace mangiare! Però, se è vero che la quantità di cibo che passa dal mio piatto al mio stomaco non mi spaventa, devo ammettere di avere gusti limitati, il che potrebbe far pensare che io sia schizzinosa, mentre in realtà il mio atteggiamento è conseguenza di esperienze particolari della mia infanzia che non sono riuscita a superare del tutto.

Da piccola sono sempre stata elogiata dai miei familiari soddisfatti perché "la bambina è di appetito e non ha mai saltato un pasto”. Ci sono alcuni aneddoti a conferma di ciò, tipo il fatto che fossi abituata a mangiare a mezzogiorno in punto e che diventassi una iena se non mi si presentava il piatto alla mia ora, per cui mia madre racconta di quando non sapevo ancora parlare ma urlavo “iso iso!!” dal seggiolone chiedendo che mi fosse dato il riso; oppure i dispetti che mi faceva la mia bisnonna che avvicinandosi l'ora di pranzo mi veniva a cercare dicendomi che non mi avrebbero dato da mangiare, e io disperata che gattonavo piangendo a cercare consolazione da mia nonna.

Solo in due occasioni ho avuto problemi nel mangiare ciò che mi avevano preparato: la prima volta avevo circa due anni quando mia madre decise di farmi mangiare il cervello, ma quell'opera caritatevole fatta sicuramente per il mio bene non fu gradita dal mio palato e fu ripagata malamente quando tutto ciò che si era tentato di farmi mangiare, uscì dalla mia bocca, posizionandosi direttamente sulla faccia di mia madre.

Ma l’episodio fondamentale che ha condizionato tutta la mia vita accadde in seguito, quando all'asilo mi servirono un tipo di carne che non avevo ancora provato, le cronache riportano che fosse vitella, ed io, evidentemente disgustata da quest’assaggio, vomitai tutto quello che avevo ingurgitato, rifiutandomi da quel momento di mettere sotto i denti qualsiasi tipo di carne. 

Questo rifiuto durò qualche anno, per cui prima all’asilo e poi alla scuola materna, mia madre o mia nonna rifornivano quotidianamente la cucina della scuola di un alimento sostitutivo per il mio pranzo. Mi ricordo a tal proposito di uova, che venivano passate dalla strada alla cuoca attraverso la finestra della cucina e che mi ritrovavo nel piatto all'ora di pranzo.

Il dottore però sentenziò che non potevo rinunciare completamente alla carne in una delicata fase di crescita come quella che stavo attraversando e costrinse mia madre e mia nonna ad inventarsi una soluzione per somministrarmela a mia insaputa.

Fu così che cominciarono a servirmi le patate primavera che, mi si disse, erano patate più scure di quelle normali, tacendomi il fatto che si trattava in realtà di purè, mischiato a carne di manzo macinata. Certo non sono stata l’unica e probabilmente nemmeno la più cogliona, dato che una mia conoscente mangiava la “Muccanza” che sua madre con la complicità del macellaio, le aveva fatto credere non essere carne anche se si comprava in macelleria.

Dopo anni di patate primavera, un giorno mi resi conto dell’inganno, probabilmente perché mia nonna non era riuscita ad amalgamare completamente la carne con le patate, e, tra lo stupore di tutti, dichiarai che in fin dei conti la carne di manzo non mi dispiaceva e ricominciai a mangiarla. Col tempo affrontai anche il pollo che diventò mio amico carissimo a tavola, specialmente quando tagliato a bocconcini e ammorbidito nel limone veniva cucinato nel latte.

In generale posso comunque dire che l'episodio dell'asilo ha avuto notevoli conseguenze nella mia alimentazione e ha fatto sì che io sia diventata molto sospettosa nei confronti dei sapori della carne. 

Infatti per un motivo oscuro ai più, mi sono sempre rifiutata di mangiare il maiale, probabilmente perché preferivo il sapore del manzo che mi era comunque rimasto familiare grazie alle patate primavera e perché la fettina di maiale mi ricordava quella che mi aveva dato noia all’asilo quella volta, ad ogni modo da allora non sono mai riuscita ad affrontare la bistecca e le costine di maiale (che in Toscana vengono definite con il termine "Rosticciana").

Ma non è finita qui, per un motivo ancora più oscuro dal quel momento sono riuscita a mangiare tranquillamente, anzi direi che ne sono ghiotta, dei surrogati del maiale quali prosciutto cotto (che adoro e ne mangerei a quintali), prosciutto crudo e salsicce; non solo, tra le carni più comuni non mangio agnello, qualsiasi tipo di volatile che non sia il pollo, il coniglio, il tacchino, la pecora, l'oca, la trippa e la selvaggina, e non sono certo una frequentatrice della sagra della ranocchia fritta o della lumaca, ma negli anni ho cominciato ad apprezzare il cinghiale, il lampredotto, e soprattutto il Doener Kebab nonostante il sospetto che si tratti di carne di montone.


In realtà il motivo oscuro l'ho sempre saputo, il mio rifiuto è dovuto alla paura di provare le stesse sensazioni che mi portarono quel giorno a decidere di non mangiare più carne. Invece i miei familiari, soprattutto mia madre, hanno continuato in tutti questi anni ad ignorarlo e mi hanno sempre accusata di dare giudizi a priori. La frase più ricorrente della mia vita è stata, "ma come fai a dire che non ti piace se non l'hai mai assaggiato!", frase logica che però mi ha sempre messa in crisi perché non sapevo cosa rispondere. Oggi invece, per evitare discussioni inutili, visto anche il fatto che mia madre non ha più il controllo sui miei pasti, rispondo con un laconico "L'ho assaggiato, ma non mi è piaciuto", che tranquillizza tutti.


Questa mia idiosincrasia nei confronti di certi tipi di carne ha sempre provocato qualche perplessità in chi mi accoglieva in casa, specie se si trattava di massaie e regine della cucina. A cominciare da mia nonna, che si scervellava per cucinarmi cibi che sapeva essere di mio gradimento, tipo un paio di etti di prosciutto cotto, il pollo al latte e i pomodori ripieni, e che alla fine del pranzo mi chiedeva sempre: "ma ti ho accontentata?"

In seguito ho messo in crisi le madri, le zie e le sorelle e i fratelli dei miei fidanzati. L'episodio più eclatante accadde quando fui invitata a pranzo dalla zia di Umberto, il mio primo fidanzato ufficiale a 20 anni, la quale aveva cucinato il tacchino in umido. Io ci provai a mangiarlo per amore, ma mi ritrovai a vomitare in bagno, e adducendo una forma influenzale improvvisa costrinsi il mio fidanzato a portarmi velocemente a casa. Dopo questo episodio siamo stati insieme per altri tre anni ma non sono stata più invitata a pranzo dalla zia. 

Per fortuna oggi la mia cara suocera e il mio caro cognato, le regine della cucina a casa di mio marito, hanno capito la situazione e cercano di accontentarmi, ma comunque tengono sempre una confezione di prosciutto cotto in frigorifero.


L'esperienza più importante per me, quella in cui ho superato la mia paura, è stata quella che mi ha portata ad assaggiare le budella di maiale. A pochi passi da Firenze c’è un’antica tradizione, che continua tutt'oggi in alcune periodi dell’anno, per cui si preparano e si cucinano le budella di maiale.

Cucinare le budella richiede una lunga preparazione, infatti esse devono essere lavate più volte sia da dritto che da rovescio, per togliere i residui di ciò che ci era passato dentro, e poi devono essere cotte a lungo in una pentola piena d'acqua con varie spezie e del cavolo verza. Si servono in tavola tirandole su direttamente dalla pentola, sono molto morbide e tenere da tagliare e si mangiano accompagnandole con sottaceti e sottolio. Con il brodo che ne deriva si fa un risotto. 

Mia nonna quando veniva il momento di fare le budella, lavorava la giornata intera del sabato e la domenica riuniva tutta la famiglia intorno al pentolone. Io chiaramente non ho mai voluto mangiarle, nonostante l’insistenza di tutta la famiglia, anche se mi attirava moltissimo l'odore che circolava in casa e vedere la gioia con cui i miei familiari con il forchettone tiravano su metri di budella e se le mettevano nel piatto. Qualche volta mi è stato fatto mangiare il risotto con la scusa che "tanto lì le budella non ci sono", come se non capissi che il sapore del brodo derivava da quello che ci era stato cotto dentro. 

Insomma questa delle budella era una vera e propria celebrazione di un rito, a cui io non ho mai partecipato, con sommo dispiacere dei miei nonni, preoccupati soprattutto che la tradizione non si tramandasse. Infatti così è accaduto perché mio nonno è morto e mia nonna non è più in condizioni di sottoporsi alla lunga preparazione, mio padre e mia zia preferiscono essere invitati da amici e conoscenti, mentre io e mia cugina non ci siamo appassionate né al piatto né alla preparazione. 

Però l'ultima volta che si è celebrato il rito, prima che morisse mio nonno, ebbene sì le ho assaggiate. Sarà stato quell'odore che insinuatosi nel mio naso anno dopo anno mi ha convinto che ci potevo provare, o la sensazione che forse era l'ultima occasione, non so di preciso, comunque ne presi un pezzetto, lo misi nel piatto, lo tagliai a strisce e mangiai senza gusto né disgusto. In quell’occasione ho scoperto che le budella di maiale non hanno un proprio sapore forte, ma sanno di cavolo verza e di spezie, in pratica lo stesso sapore del risotto. Ho quindi capito che, in tutti quegli anni in cui i miei parenti si abbuffavano di budella, cercando di convincermi a mangiarle, mentre io mi rifiutavo in maniera energica, tutti avevamo perso tempo, specialmente loro che giudicavano in maniera esagerata qualcosa che sapeva di verza.


Caro Lettore, 

l'episodio in cui ho mangiato le budella è rimasto l'unico della mia vita, ma è una tappa fondamentale. Infatti, da una parte ha contribuito ad aumentare il mio orgoglio fiorentino dandomi la possibilità di esaltare nel mondo il sapore di un piatto della tradizione a ragion veduta, dall’altra mi è rimasta la soddisfazione personale di aver superato un mio limite.
Certo è che sono passati degli anni da quell’episodio e oggi mi chiedo come mi comporterei se mi dovessero portare in tavola un piatto di budella? Chissà se potrò mai dare una risposta a questa domanda…


A presto

Nel+cistail-

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